martedì 14 aprile 2015

L'invasione degli ultracorpi

In questi mesi sta girando l'Italia un'allegra compagnia di archeologi, riuniti intorno al progetto archeostorie. Un libro. O meglio un manuale non convenzionale di archeologia vissuta.
L'altro giorno c'è stata la 'grande festa', l'evento, il 'brainstorming di massa'. Questo. Ce ne sono stati altri, ce ne saranno altri nelle prossime settimane, anche nella mia città. Ma l'evento di Roma per me è stato particolare, e vi spiego perché.
Forse perché c'erano davvero tante persone; tante facce note e tanti sconosciuti (a cominciare dagli autori del libro; molti di loro si incontravano per la prima volta di persona).
Più probabilmente perché c'erano diverse generazioni, tutte insieme, per parlare di archeologia. Se ci pensate bene, questo non avviene spesso nell'archeologia che conosciamo: ci sono le lezioni e le attività di ricerca, in cui sono presenti maestri e allievi; ci sono le pubblicazioni, in cui ci sono autori e lettori; ci sono le esperienze di fruizione, in cui ci sono guide (reali e virtuali) e pubblico; ci sono i convegni, in cui ci sono esperti e meno esperti.
Ma io, tutte queste persone, insieme, a parlare di archeologia, francamente non le avevo mai viste!  Allievi, maestri, giovani e meno giovani, ricercatori, professionisti, autori e pubblico; tutti hanno mostrato grande interesse e curiosità per un libro atipico ('non convenzionale' appunto, secondo il sottotitolo) di cui probabilmente si sentiva un gran bisogno.
La non convenzionalità di Archeostorie è proprio nella concretezza e nella determinazione del messaggio che contiene, e nell'essere scritto non solo pensando a quanti 'vogliono fare l'archeologo ...', ma soprattutto a quanti vanno a iscriversi oggi in una delle tante università italiane per fare archeologia, e a quelli che oggi, in quelle stesse università, si stanno laureando.
Ma la stessa non convenzionalità è anche nei messaggi che il libro non contiene: nessuno si lamenta del lavoro che non c'è o recrimina contro una formazione inadeguata ma tutti preferiscono mostrare -orgogliosamente- il lavoro che fanno e come usano le proprie competenze. Nessuno propone una ricetta miracolosa o auspica una riforma epocale ma tutti indicano un obiettivo più che concreto, che le generazioni precedenti non sono riuscite a raggiungere: salvare dalla distruzione il più grande patrimonio culturale che l'Italia possiede: i suoi professionisti, passati, presenti e futuri.
L'altro giorno, quando è toccato a me parlare, mi sono scoperto sopraffatto dall'emozione (decisamente acuita dalla presentazione in prima assoluta del mio cortometraggio Closing Time), e non ho detto fino in fondo quello che avevo pensato. Facile, ve lo racconto ora.
Un paio di settimane fa, a Siena, ho partecipato ad una trasmissione di let's dig again, la radio degli archeologi. E come tutti ho dovuto rispondere al domandone finale "che cosa diresti ad un ragazzo che vuole iscriversi ad archeologia?". Se volete ascoltarvi la puntata, verso la fine trovate la mia risposta. Che comunque non è "scappa!" come molti si aspetterebbero, ma è piuttosto:
"preparati a costruire il tuo futuro usando le ottime conoscenze e le competenze che i corsi in archeologia delle Università italiane ancora riescono a dare, ma ricordati che non bastano, se non ci metti qualcosa di tuo: creatività, idee, inventiva".
Oggi la mia risposta a questa domanda (che per chi fa formazione dovrebbe essere obbligatorio porsi quotidianamente) sarebbe la stessa, con una piccola aggiunta:
"leggiti tutte le archeostorie, trova la tua preferita. Oppure inventane una nuova, scopri quella che manca. E trasformala nel tuo futuro".

E' questa la chiave di un manuale non convenzionale di archeologia vissuta: non ti spiega la disciplina ma ti mostra quello che c'è e ti lascia immaginare quello che puoi fare tu.

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