lunedì 21 gennaio 2013

La febbre dell'oro

Si apre in questi giorni l'ultimo mese di una campagna elettorale finora vuota e disgustosa. Credo che chiunque abbia una coscienza civica sia assolutamente depresso dal modo con il quale ci si appresta a salutare l'inizio della terza repubblica, non fosse altro per il fatto che rischia di assomigliare drammaticamente alle prime due.
Ad esempio non possiamo non osservare con sconcerto la marginalità assoluta in cui ancora una volta sono stati relegati i beni culturali, grazie anche ad un anno in cui sono stati "tecnicamente" cancellati dalla scena politica. Un'agghiacciante continuità con i giorni in cui qualcuno diceva che la gente non si mangia la cultura, dimostrando un feroce disprezzo e una assoluta incompetenza che non vorremmo mai più vedere in nessuno che si occupi della cosa pubblica. Come se, nelle spaventose cifre di questi giorni sulla disoccupazione giovanile non siano compresi anche tanti professionisti dei beni culturali, rimasti incastrati fra lo smantellamento della ricerca, la mortificazione del pubblico impiego e l'imbarazzante incapacità di immaginare un modello di sviluppo credibile, che non preveda solo lo sfruttamento di stampo veteroindustriale del nostro patrimonio, ma anche e soprattutto la creatività e la sostenibilità. Inutile nascondersi infatti che, per quanto tutti si affrettino a definirla superata, continua invece a godere di ottima salute nei beni culturali la ritrita metafora minerario-petrolifera e i relativi concetti di "giacimenti", o "sfruttamento". Una metafora tranquillizzante, che propone un modello di crescita consolidato, affidabile, facilmente comprensibile a tutti.
A modificare questo credo, radicato nella classe politica e nella società, non bastano certo le tante iniziative che si sono affastellate in questi mesi, e nemmeno le recenti primarie della cultura. Queste ultime in particolare, sicuramente meritorie di aver proposto il tema della riforma dei beni culturali con una prospettiva ampia, rimangono viziate dal sospetto che si tratti soltanto di una mossa di una più ampia strategia elettorale. Un dubbio sufficiente a gettare ombra sulla validità dell'intera operazione e a mettere a disagio chi, come me, in questa operazione ha creduto (magari ingenuamente) e che non può non sentirsi ingannato e sfruttato.

Ma comunque, anche se il nostro patrimonio fosse un giacimento e avessero ragione quanti auspicano un suo sfruttamento, resta il fatto che nessuno è sinora mai stato in grado (né lo è oggi) di costruire un'industria intorno a questa risorsa. Quando pensiamo ai beni culturali noi italiani ci sogniamo di vedere da un momento all'altro zampillare dalla terra il petrolio, quasi fossimo nel Texas degli inizi del '900, alle soglie di una rivoluzione energetica che ci farà finalmente ricchi. Più correttamente ci dovremmo invece immaginare in un passato preindustriale ben più remoto, in cui queste risorse non hanno alcun valore perché nessuno ha un'idea di cosa farne. Per sfruttare una risorsa non è infatti sufficiente possederla, ma è necessario che ci sia una tecnologia per renderla disponibile, un'industria per trasformarla in prodotto e una società in grado di utilizzarla. Non è certo un caso che i paesi più ricchi al mondo di risorse naturali rimangano poveri  ...

Per iniziare a utilizzare questa risorsa è quindi necessario dar vita ad un'operazione di crescita sociale, culturale, politica ma anche tecnica e tecnologica. Una crescita che inizi dal superamento di tutti gli stereotipi stantii che da sempre ci soffocano e ci porti a guardare più lucidamente la realtà delle cose.

Una proposta, per iniziare: affranchiamoci dalla facile mitologia che vuole noi italiani custodi di chissà quali inestimabili ricchezze.
In Italia abbiamo urgente bisogno di una visione più laica dei beni culturali, fondata sulla consapevolezza che anche da noi esistono patrimoni ben più preziosi di quello materiale (che in altri luoghi del pianeta già costituiscono una vera risorsa ...), e non più sul dogma di un primato mondiale.
Possibile che non ci si accorga di come proprio il mito della tanto decantata supremazia del nostro patrimonio culturale abbia sempre costituito più un ostacolo che un'opportunità di sviluppo? Orgogliosi di questa superiorità (tutta da dimostrare) siamo abituati a considerare il nostro patrimonio culturale come un dono divino, che non richiede alcuna forma di gestione. C'è, e come tale funziona. Basta garantire che non crolli, non svanisca, non venga rubato.
Lo sfascio dei beni culturali in Italia non è un paradosso, ma la logica conseguenza di una risorsa mai veramente compresa a fondo.

I tanti giovani laureati in beni culturali che non trovano un lavoro non sono una tragedia ben più grave dei cedimenti dei muri di Pompei? Non è un patrimonio, o un giacimento, o chiamiamolo come ci pare, molto più prezioso e delicato? Eccola infatti la nostra unica e vera risorsa, perfettamente rinnovabile e pure colpevolmente sottoutilizzata. Sono infatti proprio le capacità e le competenze, quelle esistenti e quelle che sapremo creare per il domani, l'unico possibile punto di partenza per uno sviluppo, sociale condiviso e sostenibile, dei beni culturali.

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