giovedì 27 settembre 2012

Questo non è un mestiere per vecchi


Oggi si è svolto a Roma un convegno su “L’Italia dei beni culturali: formazione senza lavoro, lavoro senza formazione”.
Nel corso della giornata ho ascoltato tanti interventi, sul tema formazione e lavoro, che hanno messo in evidenza i problemi di un mondo che vive in perenne agonia, fra carenze ataviche e una strutturale mancanza di prospettive.
Che vi fosse uno scollamento, vuoi generazionale, vuoi di ruolo, fra gli attori di questo scenario mi sembra cosa ovvia, ma che abbia raggiunto una dimensione sistemica (leggibile ad esempio nella scarsa partecipazione all’evento) è a dir poco preoccupante.

Prendo spunto dall’ultimo intervento che ho potuto ascoltare nel pomeriggio, prima di prendere un treno che mi riportasse a casa; a parlare erano i rappresentanti dell’associazione nazionale archeologi, che dopo aver esposto l’ennesima, impietosa analisi dei dati di settore, hanno in poche parole riassunto il senso della giornata; meglio di tanti interventi che avevano in precedenza descritto lo sfascio del rapporto formazione-lavoro nel loro settore (bibliotecari, archeologi, antropologi, restauratori, archivisti, storici dell’arte, architetti), e meglio della lettura di tante testimonianze strazianti che narravano esperienze di frustrazione di lunghi percorsi di specializzazione finiti nel nulla.
In questo intervento si è parlato di colpe, responsabilità e bugie, equamente distribuite fra i diversi attori dello scenario, nonché fra passato e presente.
Delle università, che hanno per anni (e continuano a farlo) sventolato il miraggio di un reclutamento illimitato nel personale interno e in quello del MiBAC;
Di chi ci ha creduto, facendosi abbindolare da piani di studio evidentemente fatti male, con scarsa capacità e forse, a volte, scarsa onestà intellettuale;
Di chi, ostinatamente e acriticamente, continua a crederci ancora oggi.
Si è trattato senza dubbio di un’analisi limpida e inesorabile, ma anche sobria e senza fronzoli, di quello che si potrebbe definire un modello di sviluppo insostenibile (sempre che esista un modello di sviluppo in questo settore).

Altrettanto limpide sono le soluzioni individuate: avviare il riconoscimento del titolo professionale, lavorare ad un sistema di welfare più orientato alla tutela della persona che a quella del posto, consolidare (e mi permetterei di suggerire, semplificare) l’affollato panorama dell’associazionismo.
Ottimo. Ma forse non basta.

Da archeologo, da ricercatore, da ‘privilegiato’, cerco ogni giorno di dare un senso, civile, al mio mestiere, e per questo motivo mi permetto di lanciare un paio di spunti, che suoneranno forse provocatori, ma che vogliono essere in realtà uno stimolo non tanto a proseguire il dibattito su una nuova archeologia, ma piuttosto a cercare una via d’uscita da una situazione inequivocabilmente paralizzata.

1- Gli archeologi son tutti giovani e belli.
Che università, ministero e altri siano colpevoli di proporre un finto modello occupazionale è ormai chiaro a tutti. Ma una volta che abbiamo smascherato l’inganno che cosa proponiamo per il domani?
E’ indubbio che l’archeologia preventiva, per quanto a singhiozzo, dia lavoro a molti giovani. Ma lavorare sul campo è davvero la prospettiva occupazionale su cui vale la pena investire tutte le proprie competenze? Davvero è possibile immaginare una vita di lavoro spesa spostandosi su cantieri diversi, in luoghi diversi, fino all’età della pensione?
E in questo caso è davvero necessario l’accanimento formativo di un precorso di studi che dura più di quello di un chirurgo?
Credo che gli archeologi possano chiedere molto di più alle università, e debbano essere messi nelle condizioni di farlo, attraverso interventi legislativi e di governo, ma anche modificando profondamente il sistema della formazione.
Che deve portare gli studenti a diventare professionisti, piuttosto che spingerli in una spirale micidiale di iperspecialismi su temi certamente interessanti, ma orientati più alla ricerca che alla creazione di competenze spendibili nel mercato del lavoro. E’ quello che succede a tanti studenti, bravi, che proprio per la loro bravura vengono condannati a proseguire su una strada senza uscita da cui sarebbe più onesto invece metterli in guardia il prima possibile. Forse serve più metodologia e meno cronologia.

2- L’immaginazione è più importante della conoscenza.
Lo diceva Einstein, immaginare è un’operazione complessa; per gli archeologi è pane quotidiano. “Come era?” è la domanda che ci si fa costantemente nel nostro lavoro, e racchiude l’essenza del mestiere di archeologo. Senza immaginazione infatti non si diventa bravi in un lavoro sempre in bilico fra tracce ed ricostruzione.
Eppure l’intero settore della fruizione dei beni culturali demanda ad altri professionisti, dotati di altra immaginazione, il compito di raccontare le proprie storie. Tutte le volte che una brava guida gesticola davanti a un sito per descrivere forme che non ci sono più e volumi ormai scomparsi sta raccontando una storia ai suoi ascoltatori, una storia che potrebbe avere un valore enorme nel mercato della fruizione. Nella produzione dei contenuti digitali ad esempio, che sono invece orientati quasi costantemente ad una spettacolarizzazione acritica e fine a se stessa.
Quello della comunicazione, della fruizione e delle tecnologie che la permettono è infatti un mondo completamente trascurato nella formazione universitaria che invece dovrebbe aggiornarsi, nei piani di studio, nell’offerta formativa, nei collegamenti con il mondo imprenditoriale, e guardare con maggiore fiducia a queste nuove professionalità, spingendosi oltre il mero perseguimento delle indagini scientifiche.
Il settore della comunicazione aspetta talenti! Iniziamo a costruire un ruolo per i tanti, giovani e non, che hanno tanto da dire dei loro cocci, dei loro strati, dei loro metodi.

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