lunedì 6 maggio 2013

Lost highway

Nuovo post, nuove strade senza uscita ...

A chiunque frequenti le università italiane, docente o studente che sia, appare evidente che la situazione sia molto cambiata rispetto a pochi anni fa. Sarà per la crisi, sarà per arcane strategie accademiche o per subdole scelte politiche, il risultato certo è che si sta esaurendo la spinta dei corsi di laurea specializzati (io parlo di archeologia, magari qualcuno mi può aiutare su altri settori ...), nati sulla spinta della riforma del 3+2. E' soprattutto l'assenza di un reale sbocco professionale (la cd. "spendibilità") a pesare come un macigno sulla credibilità di questi percorsi formativi, ne abbiamo già parlato tante volte, lo sanno bene soprattutto quanti in questi anni si sono trovati incastrati in questo meccanismo, traditi da un patto formazione-lavoro che nessuno è in grado di rispettare.


E' però interessante notare che, in virtù della necessità di contrarre la propria offerta formativa, molte Università (soprattutto quelle piccole) si trovano, o presto si troveranno, di fronte alla necessità di unificare i percorsi formativi e di riassorbire di conseguenza l'archeologia nel grande alveo delle discipline antichistiche, a meno che non si decida di intraprendere percorsi tortuosi di collaborazione interateneo per mantenere in vita corsi di laurea più direttamente specialistici e cercare di salvaguardare un'indipendenza scientifica difficilmente conquistata.
Prepariamoci quindi ad assistere ad una brusca frenata di quella crescita dell'archeologia che sembrava inarrestabile: abbiamo iniziato con l'affrancamento dalle storie dell'arte, per proseguire con la new archaeology, la stagione delle applicazioni tecnologiche e giungere trionfalmente a nuove declinazioni positiviste inneggianti alla complessità e alla globalità dei processi di ricerca e interpretazione. Ma adesso la totale mancanza di attenzione a costruire quella che in questo blog ci ostiniamo a chiamare una visione sostenibile dell'archeologia non solo rischia di determinare il mancato completamento di questo percorso di crescita e rinnovamento, ma di decretare la fine dell'archeologia stessa come disciplina: oggi non siamo in grado di garantire che l'archeologia che si insegnerà domani nelle Università italiane sarà quella dei nostri maestri, né tantomeno la sua evoluzione, perché di questo passo non ci sarà più nessuno ad ascoltarci.

D'altronde c'è da chiedersi, servono a qualcosa gli archeologi che le nostre Università sanno formare?
Viviamo in un paese che non saprei dire se è davvero "bello da morire", ma in cui è invece evidente che la cultura e la sua economia sono stritolate fra oligopoli, giri inarrestabili di poltrone, ingerenze politiche, incapacità amministrative e tutto il corteo delle italiche amenità. Di fronte alla facile promessa di un business petrolculturale, a che serve tutta la conoscenza specialistica accumulata in anni di studio?
A fare le guide sottopagate dei tanti siti 'privatizzati' dai grandi player del settore?
A imballare e sballare reperti e oggetti che girano per il mondo ormai senza sosta?
A seguire le trincee dei servizi, i cantieri edili e le grandi opere?
A produrre contenuti culturali, magari digitali, per i servizi museali la cui qualità non interessa a nessuno?
In definitiva, siamo davvero sicuri che l'economia dei beni culturali avrà bisogno di professionisti, e non di operai, dei beni culturali? Non sarà forse più facile (scil. conveniente) trovare altrove i lavoranti? Dove costano di meno per esempio ...

Chi lavora nelle Università, e ha il compito di formare le coscienze e le competenze per il futuro, non può continuare ad ignorare che molte cose stanno cambiando, ed affrettarsi a rivendicare un ruolo nella futura economia della cultura (quella attuale ne fa bellamente a meno), per le istanze della ricerca e della conoscenza.
Ma per ottenere una forza d'urto significativa sulla politica e sulle amministrazioni è fondamentale superare le grettezze accademiche, le rendite di posizione e la parcellizzazione del proprio orizzonte, convincendosi degli errori fatti e della impossibilità di proseguire secondo le dinamiche finora ritenute consolidate nella ricerca, nella formazione, nella tutela. Come? Ricucendo ad esempio lo strappo fra ricerca e professione e rinnovando la formazione per renderla più professionalizzante.

Fare sistema non solo è l'unica maniera per sopravvivere, ma anche un atto doveroso per contribuire a realizzare una economia della cultura sostenibile e un futuro più condiviso per il nostro patrimonio e per chi ne ha fatto o ne vuole fare, serenamente, il proprio mestiere. Certo sarebbe una sconfitta epocale per l'archeologia ritornare ad essere la scelta, molto eccentrica e poco calcolata, di alcuni studenti in lettere classiche che si avventurano su una strada affascinante ma perduta ...




2 commenti:

  1. Caro Giuliano, mi sono più volte trovato d'accordo con te sui punti di criticità e sulle possibili strade da percorrere per cercare di venirne fuori.
    Continuo e continuerò a sostenere che una delle uniche strade attualmente percorribili (non la migliore, ma solo quella che mi sembra percorribile e 'sostenibile' in un momento come questo considerando condizioni e situazioni) sia quella di ricucire - come scrivi efficacemente tu - lo strappo tra ricerca e professione, tra università e lavoro.
    Però poi mi chiedo: "Dopo aver fornito una preparazione maggiormente professionalizzante, più spendibile ai futuri archeologi, il settore dei beni culturali sarà in grado di assorbirli nel mondo del lavoro? Ne avrà effettivamente bisogno?".
    Come ti chiedi anche tu "[...] siamo davvero sicuri che l'economia dei beni culturali avrà bisogno di professionisti, e non di operai, dei beni culturali?". Allo stato attuale, no. L'economia dei beni culturali non ha bisogno di professionisti, o meglio: non può permetterseli. Perché è nata male ed è cresciuta peggio, perché non è sostenibile e non è libera.
    Quindi, pur adattando la formazione alle nuove esigenze, pare evidente come il cambiamento sostanziale debba coinvolgere il sistema tutto, in ogni sua parte: dalle istituzioni e i suoi dirigenti agli archeologi e archeologhe professionisti/e che operano sul campo.
    Fare sistema è l'unica soluzione, ne sono convinto anche io. Ma saranno tutti (ma dico proprio tutti) veramente disposti a mettersi in gioco e perdere un pezzettino del loro "posto al sole"?

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  2. In realtà mi sembra che siamo in molti ad essere d'accordo, e, nelle mie conversazioni quotidiane con colleghi e studenti ci sono molti altri che la pensano allo stesso modo, ma per pigrizia o sfiducia non osano manifestare le loro idee. E' intorno ai blog, alle varie forme di condivisione online che si stanno coagulando i tratti di un nascente antagonismo. Costruttivo e propositivo. Che ha il coraggio di lasciare anche in piccola parte il proprio posto al sole per dare spazio ad altri, e alle loro idee.
    Il problema sono gli interlocutori, come dimostra il dibattito politico, quello "ad alti livelli", dove è tutto un fiorire di sfruttamento di risorse, lirici appelli all'italico senso del bello e un ben più organizzato e prosaico reclutamento al volontariato.

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