martedì 6 agosto 2013

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Questa volta mi concedo un post privato. Una storia personale, che riguarda fatti avvenuti molti anni fa, quando, poco più che bambino, mi affacciai per la prima volta sul mondo dell'antichità. Scritta un anno fa sull'onda della commozione per la perdita di una persona cara, a modo suo anche questa è una storia fra passato e futuro.

Buona lettura.


Imparai il Latino in quella che il romanziere descriverebbe come una lunga estate calda. Giravamo la città via via più deserta man mano che si avvicinava agosto e non ricordo molto altro.
Il mio avvicinarmi distratto agli studi che mi avrebbero aspettato quel settembre si era fino ad allora limitato ad una pagina ingiallita di una vecchia grammatica greca dove cercai di decifrare, senza troppo ardore, strani caratteri e  di associarli a nuovi suoni.

Quell’estate i mercoledì dai nonni si riempirono di un nuovo sapore, tanto forte nei miei ricordi che prima non ho che vaghe immagini di come passassi i miei pomeriggi dopo il riposino nella stanzetta.
La piccola stanzetta aveva il profumo dei campioncini di crema della nonna, sempre diversi e tanto colorati. Si affollavano gli oggetti e giungevano lontani i rumori pomeridiani della cucina.
Poi, uno di quei giorni estivi il nonno mi fece sedere davanti a lui, alla sua scrivania e aprì un vecchio libro di grammatica latina …

Iniziarono allora a girarmi intorno le rose, cui nei giorni successivi vennero a far compagnia i lupi. Presto i miei pomeriggi estivi si affollarono di fanciulle, di altari, e poi di avvoltoi, aratri, ragazzi, guerre, re, cittadini, flotte, fino ad arrivare ai giorni e alle cose.
A settembre mi sembrava di sapere tutto.

Quando iniziò il quarto ginnasio mi sembrava di poterlo parlare, il Latino, se solo avessi incontrato una persona con cui scambiare quattro parole.
Negli anni del liceo quei pomeriggi diventarono più numerosi e piacevoli. Con il nonno finivamo le frasi in pochi minuti e passavamo alle cose difficili, traducevamo tanto, tantissimo, al punto che la grammatica non esisteva più, la sintassi veniva dal cuore, la metrica era un ritmo di pura musica: ma quale periodo ipotetico, quali relative, quale discorso indiretto! Come un bambino bilingue non capivo che senso potesse avere studiare una lingua che sai già parlare. Io comprendevo gli autori, arrivavo al loro pensiero, e tradurre era uno sforzo inutile, una formalità da espletare in classe, una inutile perdita di tempo. Non ho mai avuto bisogno di più di dieci minuti per completare una versione, lo stesso avrei fatto agli esami di maturità se fosse uscito il Latino scritto.
Una volta giunto all’Università mi dissi “ora è diverso”. Ma ben presto mi accorsi che non era vero. Anche qui i poeti, i filosofi, gli storici mi parlavano limpidi e perfetti nella loro lingua, e i versi e i capitoli scorrevano agilmente sotto i miei occhi.

E ora? Ora ho timore di aprire un libro di Latino, per paura di essere inondato da un fiume di lettere e parole senza senso e sentirmi invecchiato, lontano da quel ragazzino di 15 anni che il Latino lo parlava.

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