Questa volta mi concedo un post privato. Una storia personale, che riguarda fatti avvenuti molti anni fa, quando, poco più che bambino, mi affacciai per la prima volta sul mondo dell'antichità. Scritta un anno fa sull'onda della commozione per la perdita di una persona cara, a modo suo anche questa è una storia fra passato e futuro.
Buona lettura.
Imparai il Latino in quella che il romanziere descriverebbe come una lunga estate calda. Giravamo la città via via più deserta man mano che si avvicinava agosto e non ricordo molto altro.
Buona lettura.
Imparai il Latino in quella che il romanziere descriverebbe come una lunga estate calda. Giravamo la città via via più deserta man mano che si avvicinava agosto e non ricordo molto altro.
Il mio avvicinarmi distratto agli studi che mi avrebbero
aspettato quel settembre si era fino ad allora limitato ad una pagina
ingiallita di una vecchia grammatica greca dove cercai di decifrare, senza
troppo ardore, strani caratteri e di associarli a nuovi suoni.
Quell’estate i mercoledì dai nonni si riempirono di un
nuovo sapore, tanto forte nei miei ricordi che prima non ho che vaghe immagini
di come passassi i miei pomeriggi dopo il riposino nella stanzetta.
La piccola stanzetta aveva il profumo dei campioncini di
crema della nonna, sempre diversi e tanto colorati. Si affollavano gli oggetti
e giungevano lontani i rumori pomeridiani della cucina.
Poi, uno di quei giorni estivi il nonno mi fece sedere davanti
a lui, alla sua scrivania e aprì un vecchio libro di grammatica latina …
Iniziarono allora a girarmi intorno le rose, cui nei
giorni successivi vennero a far compagnia i lupi. Presto i miei pomeriggi
estivi si affollarono di fanciulle, di altari, e poi di avvoltoi, aratri,
ragazzi, guerre, re, cittadini, flotte, fino ad arrivare ai giorni e alle cose.
A settembre mi sembrava di sapere tutto.
Quando iniziò il quarto ginnasio mi sembrava di poterlo
parlare, il Latino, se solo avessi incontrato una persona con cui scambiare
quattro parole.
Negli anni del liceo quei pomeriggi diventarono più
numerosi e piacevoli. Con il nonno finivamo le frasi in pochi minuti e passavamo
alle cose difficili, traducevamo tanto, tantissimo, al punto che la grammatica
non esisteva più, la sintassi veniva dal cuore, la metrica era un ritmo di pura
musica: ma quale periodo ipotetico, quali relative, quale discorso indiretto!
Come un bambino bilingue non capivo che senso potesse
avere studiare una lingua che sai già parlare. Io comprendevo gli autori,
arrivavo al loro pensiero, e tradurre era uno sforzo inutile, una formalità da
espletare in classe, una inutile perdita di tempo. Non ho mai avuto bisogno di
più di dieci minuti per completare una versione, lo stesso avrei fatto agli
esami di maturità se fosse uscito il Latino scritto.
Una volta giunto all’Università mi dissi “ora è diverso”.
Ma ben presto mi accorsi che non era vero. Anche qui i poeti, i filosofi, gli
storici mi parlavano limpidi e perfetti nella loro lingua, e i versi e i
capitoli scorrevano agilmente sotto i miei occhi.
E ora? Ora ho timore di aprire un libro di Latino, per
paura di essere inondato da un fiume di lettere e parole senza senso e sentirmi
invecchiato, lontano da quel ragazzino di 15 anni che il Latino lo parlava.
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