Dunque l'impiego delle tecnologie ha rappresentato una grande promessa di rinnovamento per l'archeologia negli scorsi anni.
Una promessa che però si è esaurita rapidamente. Anche le tante diatribe fra 'innovatori' e 'tradizionalisti' che di volta in volta hanno esaltato o negato un posto alle ICT nella cassetta degli attrezzi del perfetto archeologo in fin dei conti si risolvono dentro una prospettiva sempre e soltanto orientata alla ricerca ...
Una promessa che però si è esaurita rapidamente. Anche le tante diatribe fra 'innovatori' e 'tradizionalisti' che di volta in volta hanno esaltato o negato un posto alle ICT nella cassetta degli attrezzi del perfetto archeologo in fin dei conti si risolvono dentro una prospettiva sempre e soltanto orientata alla ricerca ...
... è infatti ancora una volta l'incapacità di guardare alla dimensione professionale a rendere anche questa stagione, apparentemente promettente, tutto sommato sterile.
L'impronta positivista che oggi caratterizza l'archeologia assorbe una quantità di risorse ancora maggiore rispetto al già significativo drenaggio legato all'espansione delle strategie estensive di analisi e ricerca affermatasi negli scorsi decenni. Risorse tecnologiche, per gestire progetti complessi, ma soprattutto risorse umane. Le tecniche di indagine moderne richiedono infatti grandi competenze, e di conseguenza i corsi universitari creano un numero elevato di professionisti. Formati secondo le metodologie più attuali e pronti ad utilizzare le tecnologie più evolute.
Ma per fare cosa?
Non esiste un mercato del lavoro interessato a recepire le grandi professionalità e le innovative competenze dei giovani archeologi! Ed è tanto facile che quasi non c'è gusto ad aggiungere nuovi interrogativi, "tecnologici" questa volta, a quelli "metodologici" che ci ponevamo qualche tempo fa ne Il giorno più lungo (Chi dovrebbe scavare le big areas? Chi dovrebbe realizzare le ricognizioni? Chi dovrebbe studiare i reperti?):
L'impronta positivista che oggi caratterizza l'archeologia assorbe una quantità di risorse ancora maggiore rispetto al già significativo drenaggio legato all'espansione delle strategie estensive di analisi e ricerca affermatasi negli scorsi decenni. Risorse tecnologiche, per gestire progetti complessi, ma soprattutto risorse umane. Le tecniche di indagine moderne richiedono infatti grandi competenze, e di conseguenza i corsi universitari creano un numero elevato di professionisti. Formati secondo le metodologie più attuali e pronti ad utilizzare le tecnologie più evolute.
Ma per fare cosa?
Non esiste un mercato del lavoro interessato a recepire le grandi professionalità e le innovative competenze dei giovani archeologi! Ed è tanto facile che quasi non c'è gusto ad aggiungere nuovi interrogativi, "tecnologici" questa volta, a quelli "metodologici" che ci ponevamo qualche tempo fa ne Il giorno più lungo (Chi dovrebbe scavare le big areas? Chi dovrebbe realizzare le ricognizioni? Chi dovrebbe studiare i reperti?):
Ad esempio:
Chi farà i rilievi 3D, e perché?
Chi realizzerà le 'ricostruzioni', e perché?
Chi si occuperà della comunicazione, e perché?
Chi realizzerà le 'ricostruzioni', e perché?
Chi si occuperà della comunicazione, e perché?
La costante mortificazione della professione di archeologo è il retaggio ultimo di una visione che è sopravvissuta indenne a qualunque innovazione, metodologica o tecnologica. Una visione miope, che dimostra l'assenza di contatto fra formazione, ricerca e mondo reale. Una visione che non è in grado di guardare al futuro, ma mira solo alla sopravvivenza ed è incurante del rapido e irreversibile esaurimento delle risorse che produce.
Una visione che non interessa quanto sia idealistica o antiquaria, ma che andrebbe invece definita per quello che sicuramente è: non sostenibile.
Una visione che non interessa quanto sia idealistica o antiquaria, ma che andrebbe invece definita per quello che sicuramente è: non sostenibile.
Nei 10 anni che ho trascorso nel mondo dell'archeologia (pochi, mi dirai.. ma dal punto di vista dei “tempi moderni” pure troppi), ho visto tante persone che hanno scoperto strumenti tecnici nuovi o quasi nuovi (rilievi digitali e 3D, modellazione 3D, etc) e poi una volta conclusi gli studi hanno dovuto scegliere tra precariato e/o disoccupazione come archeologi in senso stretto, oppure “reinventarsi” come specialisti tecnici, non più limitati al settore dell'archeologia, ma a 360 gradi. Questo da un lato sembra sconsolante. Dall'altro mi fa domandare sulla sostenibilità dell'idea che per archeologhe ed archeologi esista un modo speciale di usare la tecnologia. Quando ero uno studente si osannava nell'alto dei cieli l'interdisciplinarità e in fondo mi piaceva essere formato come una nuova specie di ibrido. Ma sembra che gli ibridi facciano una brutta fine, come in tutte le storie di fantascienza... anche se quando penso a tutti i lavori “strani” che facciamo, mi rendo conto che gli ibridi sono solo difficili da vedere.
RispondiEliminaMolti di noi hanno vissuto e si sono formati in un momento in cui si osannava la multi- o inter- disciplinarietà. 10 e più anni (e no, steko, non sono pochi), una intera stagione, che ha sperimentato, ricercato, pubblicato ... e utilizzato ampiamente quegli ibridi che ha creato. Ibridi che però non sono il frutto di una consapevole operazione didattica e culturale ma piuttosto scarti di produzione di un'archeologia 'ufficiale', utilizzati fino a quando era possibile, e poi abbandonati. Effetti collaterali, snobbati dal sistema stesso che li ha creati senza pensare al loro possibile futuro.
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