martedì 5 novembre 2013

Gli spostati (2)


Continuiamo la nostra serie di interrogativi (prima parte) e occupiamoci dei luoghi in cui di fatto si mettono a punto e si testano quelle competenze che, insieme a quanto appreso nelle aule, dovrebbero essere la base della spendibilità della formazione dei nostri archeologi: cantieri di scavo e laboratori.

Ovvero la base di un sistema formativo prezioso e unico nel suo genere, un "esempio straordinario di formazione teorico/pratica", cui di fatto è demandata la formazione della totalità dei saperi pratici degli archeologi. Ne abbiamo già parlato qualche tempo fa, in un post che ebbe grande successo (divorzio all'italiana). Ne nacque un bel dibattito, fra i più accesi nella (breve) storia di questo blog, a testimoniare della grande sensibilità verso questo tema.
Poi, qualche tempo fa, mi è capitata fra le mani una bella immagine di Heykiddo [errata corrige: l'immagine è tratta da G. Baldasarre, il mestiere dell'archeologo] citata da le parole in archeologia e, notando il contrasto con le esilaranti (e amare allo stesso tempo) parole del post, non ho più potuto smettere di pensare al rapporto fra i nostri scavi didattici e il lavoro quotidiano degli archeologi professionisti ...

La mia domanda potrà sembrare forse una provocazione, ma, giuro, tutto vuole essere tranne che questo: perché fra le attività formative (scavi, ricognizioni, laboratori) i nostri studenti non si confrontano mai con esperienze di scavo di emergenza e cantieri di archeologia preventiva?
In fondo anche nelle scuole guida si impara a guidare nel traffico, o in autostrada ...
Non solo su deserte stradine di campagna.

... continua ...

6 commenti:

  1. E anche qui ti rispondo con una storia vera di vita vissuta: perché ai miei tempi (e penso anche ora) alla Scuola di Specializzazione bisognava fare 250 ore di scavo su cantieri universitari. Guai a dire timidamente "ma io che lavoro con una cooperativa" (leggi: che ho la fortuna di poter lavorare su uno scavo) posso far risultare 250 ore di quelle?
    Risposta: no, giammai! Perché "la cooperativa non ti insegna a scavare", o se preferite "lo scavo in cooperativa non è serio". Capito cosa io e soprattutto una mia collega che aveva contratti ben più lunghi dei miei ci siamo sentite dire? La follia è che bisognava rinunciare a lavorare in cooperativa per fare uno scavo universitario. E 250 ore non sono poche, sono all'incirca un mese di lavoro non retribuito.
    Non so se dall'epoca la situazione si sia evoluta, ma chissà perché credo proprio di no...

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  2. La mia storia di vita vissuta è quasi completamente identica a quella di Marina. Quando mi feci firmare i moduli per le ore di scavo per il tirocinio della Scuola di Specializzazione mi fu chiesto dove avessi intenzione di scavare. Io risposi che non avevo (e ancora non ho) mai scavato in cooperativa e un'esperienza di questo tipo di scavo mi interessava molto. A quel punto mi fu risposto che in cooperativa non si scava bene, non seriamente e che non sarebbe stata un'esperienza fruttuosa per la mia formazione. Non lasciatevi ingannare dai passati remoti, questo dialogo è del maggio di quest'anno.
    Devo comunque dire che fortunatamente la scuola che frequento permette di ottenere i crediti di scavo anche attraverso lo scavo in cooperative, mentre in molte altre scuole, come scrive anche Marina, questo non è possibile!

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  3. Mi ero ripromesso di commentare il post appena pubblicato, ma rientri inaspettati hanno posticipato l'intervento.
    Vedo che comunque gli interventi di Marina e Francesco vanno (relativamente) nella stessa direzione in cui volevano andare le mie (contro)domande. Ovvero: forse perché la maggior parte dei cantieri universitari ha bisogno di "manodopera studentesca" per continuare ad esistere? Forse perché conta poco insegnare a scavare ma conta molto di più produrre un certo numero di pubblicazioni scientifiche alla fine dell'anno accademico per i responsabili scientifici degli scavi stessi? Forse perché non gliene frega molto al senato accademico dell'università X del "mondo là fuori" (come lo chiama Marina) e non è affatto nei suoi interessi formare dei professionisti preparati, coscienti e consapevoli di cosa c'è fuori, di cosa si può fare, a cosa si va incontro e con quali problematiche ci si può scontrare?
    Se la domanda di Giuliano non voleva essere provocatoria, le mie lo sono.
    Non voglio fare di tutta l'erba un fascio (infatti i più attenti avranno notato che ho preposto la fantastica e salvifica formuletta "la maggior parte"), ma le testimonianze di Marina e Francesco mi fanno presumere che - probabilmente - non ho mancato il centro di molto.
    Ps: per completezza, volevo precisare che l'immagine è stata tratta da “Il mestiere dell’archeologo” di Giovanna Baldassarre – illustrazione di Domenico Sicolo. In una prima edizione del post l'avevo attribuita erroneamente a Heykiddo.

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  4. Rispondo qui, ringraziando tutti coloro che hanno commentato sul sito e i tanti con cui ho parlato in questi mesi; sono tanti ad avere la loro personale 'storia dalla terra', pochissimi però possono vantare un lieto fine. Nel frattempo l'archeologia va diritta per la sua strada, ignorando i suoi professionisti e abbandonandoli al loro destino, dopo averli illusi, insegnando loro cose che difficilmente risultano utili.

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  5. La provocazione è giusta. Si impara a guidare nel traffico e non in aperta campagna dove non cammina nessuno... ma il sistema degli scavi di emergenza è lontano anni luce da quello degli scavi didattici. parlo per esperienza personale. la mole di lavoro, di pressioni, di richieste, di fattori esterni che incidono sul tuo lavoro in un cantiere di emergenza non è paragonabile allo scavo didattico. il motivo? si è schiacciati in una guerra sempre più logorante tra sovrintendenze, cooperative, comuni, ditte che conducono i lavori sul cantiere...
    io credo che si dovrebbe insegnare di più sugli scavi didattici 'l'abitudine al lavoro nella realtà' e non solo a raccogliere 'manodopera studentesca', e nell'insegnamento rientra anche l'abitudine ad una pressione psicologica, di tempi serrati, di documentazione da produrre quasi in tempo reale allo scavo perchè così funzionano gli scavi di emergenza. dall'altro canto ci vorrebbe una regolamentazione più seria e professionale del cantiere di emergenza, che ormai sempre più sta diventando un campo di battaglia tra paghe irrisorie e pretese enormi da parte di tutti i componenti della filiera.
    Citare l'articolo apparso ieri su 'L'Unità', gli archeologi (non solo ovviamente, ma tante categorie professionali) che lavorano in questo benedetto/maledetto terzo millennio sono considerati i 'nuovi proletari'...e questo anche per la diatriba, secondo me, tra scavo didattico e scavo di emergenza.

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