martedì 9 ottobre 2012

Strada senza uscita

 "Le lauree in beni culturali e in archeologia aprono sbocchi nella ricerca, valorizzazione e tutela presso Enti di ricerca, istituzioni pubbliche e private (enti locali, soprintendenze, musei, biblioteche, archivi, ecc.) nonché presso aziende ed imprese operanti nel settore ..."
Queste parole potrebbero essere prese dal sito di un qualunque ateneo italiano, sezione corsi di laurea, paragrafo sbocchi professionali.

E suonano sinistramente come una crudele presa in giro. Da anni è ormai evidente a tutti che nessun ente di ricerca o istituzione pubblica potrà mai assumere le migliaia di laureati in beni culturali; non parliamo nemmeno di aziende e imprese, che non hanno molto interesse a investire in un settore che non promette grandi prospettive di business.

Eppure ci si meraviglia della contrazione del numero degli iscritti nei corsi universitari, o anche semplicemente dello stato pietoso dei monumenti, chiamando in causa di volta in volta le declinazioni più bizzarre e pericolanti del più classico degli o tempora o mores
"colpa delle giovani generazioni, sono ignoranti",
"in Italia non c'è interesse per la cultura",
"viviamo un momento di imbarbarimento dei tempi".

Spesso avallate da un forte sentimento antimodernista e antitecnologico:
"ormai non legge più nessuno", 
"i ragazzi giocano solo con il telefonino".

ecc. ecc.

Al di là di questi facili pretesti esistono in realtà delle cause ben più serie che minano alla radice un possibile, vero sviluppo del settore dei beni culturali. 
Fra queste va sicuramente additato il disinteresse della formazione universitaria umanistica verso il mondo del lavoro.

Che lo sbocco professionale dei propri laureati non sia esattamente il primo pensiero delle facoltà umanistiche è cosa nota. La situazione negli ultimi dieci anni si è ulteriormente aggravata con l'istituzione dei corsi di laurea in beni culturali e affini, che, ben più della contemporanea e famigerata riforma del 3+2, hanno costituito un'occasione persa.
Quel che ha reso disastrosa questa prospettiva potenzialmente positiva è stata la mancanza di una riforma contestuale del mercato del lavoro e di un impulso deciso verso la creazione di nuove professioni, considerato che veniva meno anche la 'comoda' rete di protezione dell'insegnamento scolastico che storicamente assorbiva (o perlomeno ci provava) i laureati in Lettere che non riuscivano a trovare una occupazione più in linea con i propri studi (archeologi, storici dell'arte, ecc.).

Si sarebbero potute fare tante cose in questi dieci anni, ma non si è nemmeno riusciti ad aggiornare i siti web.
Tutti eravamo impegnati in battaglie di civiltà e a difendere il diritto allo studio, e abbiamo colpevolmente trascurato il dovere  di pensare al lavoro.
Oggi che vengono al pettine questi nodi atavici (e gordiani!) ci lamentiamo del precariato che uccide la passione, e dei tanti giovani che non ottengono un riconoscimento professionale consono con i loro studi. Ma trascuriamo di indagare più nel profondo,  chiedendoci, ad esempio, quanto le nostre ricerche e i nostri insegnamenti siano professionalizzanti e quanto invece siano frutto della totale autoreferenzialità del mondo accademico.



- Siamo infatti noi ricercatori a decidere che ricerche fare e come usare le risorse; poi, se nessuno ci vuole finanziare, è perché il mondo è cattivo e nessuno capisce nulla (all’infuori di noi ...).
- Siamo sempre noi a decidere, di conseguenza, che cosa insegnare, e se gli studenti non capiscono l'importanza dei nostri corsi ... (vedi punto precedente)
- Di conseguenza se i nostri studenti sono bravissimi ma imparano cose che non serviranno mai, questo è colpa del mondo che, ancora una volta è cattivo, e pieno di gente che non capisce nulla, ecc. ecc.
- Idem se i nostri collaboratori se ne vanno a tentare mestieri altrove;
- E lo stesso se nessuno si iscrive più ai corsi di studio;
- E ancora lo stesso motivo se non esistono programmi di finanziamento in cui è possibile candidare una nostra ricerca.


Per un istante proviamo anche noi, ricercatori e docenti, a pensare alle nostre responsabilità e alle colpe di una formazione che non porta all’acquisizione di competenze spendibili sul mercato del lavoro ma solo ad una specializzazione estrema nella ricerca. Specializzazione che non ha alcun esito se non proporre una perpetuazione infinita di un meccanismo insostenibile di creazione di nuova ricerca (a sua volta fine a se stessa ...)
Sarebbe ora di smetterla con l'autocelebrazione della ricerca 
e con la conseguente immancabile commiserazione del volontariato e del precariato, termini di una triste liturgia che noi stessi abbiamo contribuito a costruire e imporre, 
con la didattica inutile
 e con la ricerca inutile, ma soprattutto rifugiandoci nella aulica impenetrabilità del nostro mondo.

Sarebbe di contro molto utile pensare al placement dei nostri laureati, e dire la nostra per proporre una visione dei bbcc che  non sia più solo protezionistica ed erudita. 
Nessun governo darà mai le risorse per assumere diecimila ricercatori o cinquemila archivisti o mille ispettori di soprintendenza. Perché nessuno avrà mai le risorse per pagare un costo così alto. 
Oggi infatti i beni culturali sono solo un costo. Dalla formazione al (poco) lavoro è un settore che produce, per la collettività, solo ed esclusivamente costi, e, ed è la cosa più grave, non è in grado di immaginare un futuro diverso. 
E' evidente invece la necessità di una mentalità nuova, e un nuovo utilizzo delle risorse (compreso il tempo) di tutti ed in particolare dei ricercatori e dei docenti universitari, che partecipano alla fase delicata del processo di creazione (e demolizione) di prospettive e speranze.

La formazione dei nuovi Dipartimenti può essere l'occasione per una nuova didattica, per immaginare scenari nuovi di impiego delle competenze dei nostri laureati, che non siano avvilenti ma diano finalmente impulso a un'industria: innovativa, creativa, tecnologicamente avanzata, che assorba e richieda lavoro competente e specializzato (che non è certo la sorveglianza archeologica ...). 
Che spinga i nostri laureati a diventare dei professionisti, come fanno i loro colleghi, avvocati, ingegneri, architetti, medici e anche, più recentemente, insegnanti e professori di scuola ...

15 commenti:

  1. Concordo su tutto, ad eccezione della fiducia finale: vedo troppo spesso mentalità vecchie e superate ipotecare non solo il presente, ma soprattutto il futuro dei ricercatori, degli studenti, dei professionisti (citai in ordine sparso). A mio avviso dobbiamo hackerare questo mondo mettendo in pratica azioni di disobbedienza in maniera aperta (mettendoci la faccia) e risoluta. Bastano anche piccoli gesti, purché palesi. Ma forse sono solo un idealista sognatore.
    Gabriele

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  2. In realtà non intendevo essere ottimista nel finale ... L'obiettivo di costruire un mondo nuovo incentrato sulle professionalità si realizza solo con un movimento di tutti gli attori dello scenario, in cui ciascuno contribuisca per la sua parte.
    La faccia io ce la metto eccome!

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  3. Condivido ogni parola, davvero. Ho trovato sempre assurdo che i direttori di missioni/docenti che portano decine e decine di studenti a scavare non si siano mai chiesti: ma questi, tra dieci anni, che lavoro faranno? Oggi ci chiediamo solo se lo troveranno, un lavoro. L'assenza di un mercato del lavoro, logiche antieconomiche nella ricerca, la mancanza di innovazione sono tra i tanti elementi che rendono l'archeologia una scienza inutile, agli occhi ormai anche degli addetti ai lavori.

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  4. Non mi fermerei soltanto alla constatazione di quanto non c'è e non esiste, come se il mondo fosse costruito da altri. concordo pienamente con il post e con i commenti purché non si trasformino in un'altra 'liturgia' disfattista.
    In sé non è sbagliata o inutile la ricerca così come è fatta oggi. Possiamo anche spingerci a dire che la ricerca non deve rispondere ad un utile specifico, altrimenti rischia di esserne condizionata. Il punto è che non è incardinata in una rete culturale, sociale e politica. La ricerca sui beni culturali procede in una dimensione avulsa da qualunque forma di pianificazione istituzionale e, come una vettura alla deriva, priva di un percorso delineato. In questo ci sono le colpe pesanti del mondo della ricerca, è vero, perché la deriva l'hanno, in un certo senso, voluta e cercata.
    Perché non proviamo a immaginare di tracciare una strada? Non credo che con nuovi dipartimenti si possano creare nessi inesistenti fra ricerca, formazione, istituzione e lavoro.
    Chi denuncia i problemi nel mondo dei beni culturali, dalla ricerca alla politica, perché non ci aiuta anche ad immaginare un meccanismo in grado di funzionare? Non credo affatto che l'archeologia sia una scienza inutile (a parte il fatto che il nostro mondo, certo non ruota intorno a ciò che è utile!) ma che bisogna riavviare un motore totalmente incagliato. faremo come facciamo con le nostre stampanti, gli smartphone e gli elettrodomestici, butteremo tutto o riusciremo a risolvere il guasto?

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    1. sono convinto che già la presa di coscienza della non sostenibilità del sistema come lo conosciamo sia un risultato; purtroppo senza una pars destruens non sarà mai possibile cambiare alcunché (il motore va smontato, pulito e rimontato ...).
      Il punto è che ogni giorno, parlando con gli studenti e i professionisti mi rendo conto che sta emergendo una sensibilità nuova; che purtroppo non viene recepita da nessuno. Ad esempio, dal punto di vista universitario, una riforma della didattica e della ricerca sarebbe una bellissima dimostrazione di presenza nella società. Ma purtroppo non vedo muoversi nulla e ogni innovazione viene lasciata alla libera iniziativa. I nuovi dipartimenti sono soggetti in cui per la prima volta le università sono 'costrette' a ragionare in modo integrato su didattica e ricerca, finora sciaguratamente divise. La mia (tenue) speranza era legata a questo elemento di novità, potenzialmente importante, ma che temo resterà lettera morta.
      Iniziamo ad immaginare una soluzione, che passi dalla costruzione di nuovi rapporti fra università, professionisti, soprintendenze e imprese. Ma qualcuno è in ascolto?

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  5. difficile modificare in senso positivo la formazione umanistica senza agire anche sulle politiche del lavoro, culturali e di difesa del territorio.
    se l'esercito degli archeologi continuerà ad essere formato da docenti, ricercatori aspiranti docenti, ed addetti all'assistenza archeologica dell'italgas, dubito che possa cambiare molto.

    tanto per cominciare:

    rendere obbligatoria l'indagine archeologica preventiva anche per la realizzazione di strutture private;
    istituire un periodo di praticantato obbligatorio dei neo laureati, da svolgersi all'interno delle soprintendenze, ad es., come si fa per molte libere professioni;
    istituire un albo professionale degli archeologi;
    redigere ed aggiornare la carta archeologica nazionale;
    obbligare i comuni a provvedere alla stesura di una carta archeologica dettagliata, da aggiornare con cadenza almeno quinquennale;
    modificare i requisiti per i nuovi assunti nelle aree archeologiche, parchi, musei, istituti culturali etc. prevedendo specifiche professionalità nel settore.

    questo secondo voi aumenterebbe le possibilità di occupazione, e quindi anche la richiesta di una formazione professionale adeguata?





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    1. Mi sembra un elenco programmatico di proposte concrete e raggiungibili. Vedremo nella prossima stagione politica quale peso avrà il settore dei beni culturali, su cui, come sempre, tutti spendono parole ma finora nulla si è mosso.
      Vedremo se ci sarà volontà di riformare tutto il sistema secondo linee moderne ed efficaci. Mi conforta la maturità che viene fuori dalle voci di chi, senza protezione, questo lavoro lo fa quotidianamente. Sono voci che difficilmente potranno essere ignorate a lungo.
      Mi immagino però che le competenze degli archeologi possano essere utilizzate in modo più diffuso e profondo anche in altri settori, non direttamente legati alle attività di diagnosi, analisi e intervento sul campo. Ad esempio la comunicazione e la valorizzazione, in cui i processi di produzione, ben lontani da quelli di un'industria culturale, sono invece spesso in mano a persone che di beni culturali ne sanno -eufemisticamente parlando- ben poco.

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    2. Io credo relativamente all'indagine preventiva, che non è sempre risolutiva. Ci sono moltissimi casi di siti sepolti da metri di colluvi o di alluvioni che non sarebbero stati scoperti senza il controllo in corso d'opera. Capita spesso che, in un'area considerata a basso rischio, si scoprano abbondanti resti archeologici durante lo scavo con mezzo meccanico. Il mio suggerimento è che per qualsiasi opera edile sia obblligatorio il controllo.
      Caterina Ottomano

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  6. @giuliano Hai grattato via la patina e hai tirato fuori il cuore dell’iceberg. La penso esattamente come te. Non è una colpa vedere la nostra professione come un lavoro. Tale deve essere e come tale deve esistere fuori dalle università. Non scendere a patti con l’economia reale non è idealismo è una forma di snobismo. È un peccato vedere che tanti storici dimenticano che le cose e le discipline per continuare ad esistere e progredire devono avere un significato all’interno della società altrimenti spariscono. L’archeologia e la storia sono importanti per il presente, ma siamo noi a doverlo dimostrare, non sono sempre gli altri a doverci pagare sulla fiducia.

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    1. Su queste basi si può costruire un'archeologia nuova (chiamatela globale, 2.0, o come meglio vi pare). Non è possibile rimanere estranei all'"economia globale" e pretendere allo stesso tempo di essere una voce autorevole nella cultura e nella società!
      "L’archeologia e la storia sono importanti per il presente, ma siamo noi a doverlo dimostrare, non sono sempre gli altri a doverci pagare sulla fiducia" è dannatamente giusto, ma lontanissimo dai comportamenti attuali: riusciremo a portare avanti questa visione?

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  7. Ci tocca e ci piace. Abbiamo forse qualcosa da perdere? Io personalmente no.

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    1. E da dove cominciamo? Quali sono i possibili interlocutori?

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    2. Certo che l'archeologia è un lavoro, un lavoro molto specializzato e, come tale, dovrebbe essere be remunerato. Cosa che non accade. Perchè non accade? Perchè le ditte specializzate sono in guerra perenne tra loro, una guerra tra poveri. Quando le cosidette 'cooperative' erano poche e il lavoro tanto, parlo degli anni '80 e primi '90 si riuscivano a strappare tariffe dignitose, ma nel tempo la situazione si è invertita: tante ditte, poco lavoro. Così, se prima il coltello dalla parte del manico l'avevamo noi, adesso ce l'hanno i committenti. Quale può essere la via d'uscita? Un albo professionale con tariffe minime sicuramente, ma se ne parla da 30 anni e non si è mai concretizzato nulla.

      Poche società archeologiche di livello molto alto, 3 o 4 non di più. E per livello molto alto intendo qualcosa su modello dell'INRAP francese in cui operano non solo archeologi, ma anche geologi, naturalisti ed architetti, in cui i responbsabili di scavo hanno anni di cantiere alle spalle, non pochi mesi, e sono realmente competenti. Guarda, io mi occupo di assistenza geoarcheologica e ho visitato cantieri di scavo in cui lettereralmenter mi vergognavo del basso livello degli operatori, che palesemente non sapevano come muoversi, erano inesperti e si perdevano in un bicchier d'acqua. In questa maniera, utilizzando tecnici non qualificati, si fa il gioco dei committenti che si lamentano, e a volte anche a ragione, che gli scavi fanno perdere un sacco di tempo e di denaro.
      L'università non è nè mai sarà in grado di formare archeologi professionisti, i master sono macchinette mangiasoldi: la sola via d'uscita è che le ditte si prendano carico della formazione, come si fa altrove. Io ho lavorato per anni come semplice tecnico di scavo prima di prendermi carico della direzionbe di un cantiere. Anche umiltà ci vuole. Ciao. Caterina Ottomano

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  8. Caterina Ottomano. Io sono geoarcheologa, quindi vengo da una preparazione scientifica, e il mestiere dell'archeologo l'ho imparato lavorando per molti anni su scavi dal paleolitico al postmedioevo. Ho trovato fondamentale l'incontro con gli archeologi, dotati di una formazione umanistica del tutto inadeguata al lavoro di scavo, che essi pure, si sono formati sul campo. Io ho imparato da loro tutto quello che so sui materiali, loro hanno imparato a descrivere le US, a campionare i terreni, ad inserire un sito nel suo contesto ambientale. Dall'esperienza che ho avuto credo che la facoltà di archeologia vada completramente ripensata in senso meno umanisco e teorico per adeguare i laureati agli standard europei, che sono molto più alti e per prepararli adeguatamente sia alla professione che alla ricerca.

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