giovedì 13 dicembre 2012

Non aprite quella porta




Ogni indagine archeologica sul campo lascia in eredità la sfida di
ricostruire e capire. Ma anche di narrare, perché è difficile, per non dire impossibile, capire qualcosa se non si prova a spiegarla e a raccontarla. 
Spesso invece accade che, quando si riesce a pubblicare i risultati di una ricerca, lo si fa prioritariamente (per non dire esclusivamente) per la comunità scientifica: per quelli che con un'espressione che sembra mutuata acriticamente dal lessico di gestione di una centrale termonucleare si definiscono "gli addetti ai lavori".

Poi, se va bene, "se avanza tempo" e "se ci sono le risorse", si potrà pensare a "comunicare" o "divulgare" all'interno di una operazione dai tratti spesso sfumati che perlopiù viene  frettolosamente demandata alla vaga promessa della "valorizzazione" (ne riparleremo ...)
Nella prassi funziona così, a parte pochi casi illuminati. La complessità è appannaggio di pochi e solo raramente esce dai confini della 'cerchia di esperti' (altra definizione, di stampo vagamente massonico, normalmente utilizzata per definire il confine fra chi capisce e chi no): così come si transennano i cantieri invocando normative di sicurezza più subite che ragionate, anche i meccanismi di conoscenza vengono preclusi al grande pubblico.
Eppure se non si è in grado di spiegare a chi -troppo frettolosamente- pensiamo che non sia in grado di capire, vuol dire che non si è capito nulla. Lo diceva qualcuno che si occupava di cose molto, molto difficili, e conosceva benissimo d'altronde la bellezza e la chiarezza della semplicità: you do not really understand something unless you can explain it to your grandmother sosteneva Einstein. 
Possibile che raccontare il mestiere di archeologo sia più difficile che spiegare la teoria della relatività? 
Forse, più probabilmente, nessuno ne coglie l'importanza; certamente non interessa a chi fa ricerca e formazione, e, perennemente occupato nella difesa della propria identità scientifica, dedica al resto del mondo conosciuto solo una parte residuale del proprio tempo.
Schiacciata fra la tradizione classicistica che vuole gli archeologi ancora 'cavatori di tesori' ed il pubblico pronto a farsi stordire da un'altra storia di mistero la comunicazione scientifica in archeologia rimane, almeno in Italia, un mondo irraggiungibile ed ancora inesplorato. Quanto lavoro ci sarebbe da fare per rendere comprensibile al grande pubblico l'archeologia vera, quotidiana, polverosa e faticosa! E quanto farebbe bene agli archeologi imparare a spiegare a se stessi le cose, che spesso poi tanto complicate non sono, smettendola di giocare al gioco di renderle tali! 
Temo che la deriva tecnicistica, ma anche gli obiettivi di onniscienza, stiano allontanando l'archeologia dal mondo reale, costringendola ad arroccarsi nel baluardo della complessità e della testarda convinzione di essere sufficiente a se stessa. In un momento storico in cui l'esiguità delle risorse mette allo scoperto le criticità di tutti i sistemi, anche il mondo dell'archeologia dovrebbe interrogarsi su quali sono le proprie priorità, il proprio ruolo nella società e quali le abitudini che non ci si può più permettere. In questo momento infatti tutta la ricerca, e quella umanistica in particolare è messa di fronte alla necessità di rendere conto alla società delle ragioni della propria esistenza e delle proprie finalità, e di contribuire ad un nuovo paradigma di sostenibilità.
E' in questo quadro che l'archeologia, come faceva negli anni ormai un po' sbiaditi in cui aveva iniziato ad essere non più un esercizio intellettuale ma un veicolo di coscienza, dovrebbe fare propria l'esigenza di comunicare con il pubblico e di parlare a tutti, aprendo i cancelli dei cantieri in cui si forma la conoscenza, anche quella più specialistica. Avvicinando il pubblico, spiegando i metodi, i mestieri, le storie. Soprattutto le storie. Sarà che ho due bambini piccoli, ma ho riscoperto il piacere di raccontare. E tutte le storie, anche quelle dalla terra, hanno un senso solo se vengono raccontate.

Questo post è dedicato a tutte le archeologhe e gli archeologi che sabato 15 saranno in piazza della Rotonda a Roma per manifestare la loro presenza, la loro forza e la loro dignità. 
Pur lontani, sabato saremo con loro.

2 commenti:

  1. Confesso che dalle prime righe ho pensato tu stessi scrivendo di come riusciamo a non condividere le nostre ricerche nemmeno con i vicini di stanza (ma penso che se ne possa parlare prossimamente). In realtà il tema non mi sembra scollegato, perché chi si abitua a non condividere “tra esperti” difficilmente lo farà nei confronti del pubblico.

    Quello della complessità (vera o presunta) mi sembra un punto di vista sempre più importante, hai ragione. Anche se a me sembra che la complessità vera, quella “scientifica”, sia spesso sbandierata come spauracchio senza poi effettivamente misurarcisi, mentre al contrario prevale la “complicazione” che implica linguaggi artificiali totalmente incomprensibili al pubblico (e anche ai colleghi non completamente immersi nel nostro orticello disciplinare). Spesso traducendo da e verso altre lingue mi rendo conto di quanto siano vuoti i discorsi che facciamo e scriviamo.. e purtroppo sono spesso gli stessi indipendentemente dal contenitore e dal destinatario.

    Sono un tardoantichista (ebbene sì, confesso!). Il tema centrale di quello che studio è il cambiamento totale e lo stravolgimento di un mondo, la “crisi”... un fenomeno complesso, in cui ci sono anche parti del mondo che non si stravolgono per niente, le stesse cose che succedono nello stesso modo ma con secoli di ritardo, e tante altre sfumature. Non è facile raccontare queste cose, anzitutto perché non è facile capirle, e non credo che un qualunque altro periodo sia più semplice. Ecco, la cosa che più mi deprime è sentire gli esperti di questi grandi temi parlare delle crisi dei nostri giorni: l'Italia è in cattive acque per colpa di [uomo politico], i [popolo mediterraneo] sono pigri e un po' la crisi se la meritano, i [popolo nord-europeo] sono insopportabili, e avanti così nella fiera delle banalità. Certo, ne parlano da comuni cittadini, nelle pause dei convegni, al bar... ma quanta tristezza a vedere le mille sfumature di epoche lontane che diventano bianche e nere come in un vecchio televisore, un filtro di fotoritocco lo-fi. Questi sono i nostri alfieri? Quasi quasi preferivo avere “the decline and fall” ma degli intellettuali veri.

    Ma si può fare, lo possiamo fare. Di tante “parole chiave” dell'archeologia teorica ce n'è una forse più bistrattata delle altre, a cui però sono affezionato: multivocalità. Una parola complicata per dire che le storie sono più belle se ognuno di noi racconta la sua, e tutti ascoltiamo. Sabato ascoltiamo le voci che arrivano da Roma, anche da lontano.

    RispondiElimina
  2. Io sto conseguendo una seconda laurea in matematica e sono a Torino dove già esiste da tempo una certa propensione alla divulgazione (il prof. Odifreddi per esempio), ma è comunque stimolante vedere uno sforzo continuo di tutto il mondo accademico su questo aspetto.

    C'è un libro di divulgazione storico, bellissimo, che si chiama "Che cos'è la matematica" di Richard Courant.
    L'autore chiamò le prime copie dell'opera "Matematica per Lori", la sorellina di tredici anni.

    Oppure, per far contenti i fisici:

    "Qualcuno mi disse che ogni equazione che avessi incluso nel libro avrebbe dimezzato le vendite. Decisi perciò che non avrei usato alcuna equazione. Alla fine, però, ho fatto un'eccezione per la famosa equazine di Einstein, E=mc^2. Spero che essa non spaventerà metà dei miei potenziali lettori".

    Stephen W. Hawking "Dal big bang ai buchi neri"







    RispondiElimina

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...