lunedì 11 marzo 2013

Divorzio all'italiana

Da qualche giorno rimbalza in rete -nelle mailing list degli archeologi, sui social network e sui blog dell'universo dei beni culturali- la notizia che il Ministero ha negato in blocco le concessioni di scavo su terreni di proprietà privata, trovandosi nell'impossibilità di riconoscere un eventuale premio di rinvenimento ai proprietari del terreno stesso. Oggi finalmente la notizia sembra aver trovato la sua giusta visibilità anche sulla stampa nazionale.
I commenti sono ovviamente senza eccezione alcuna negativi, e non possiamo non associarci all'inevitabile coro di protesta nei confronti di una decisione odiosa e soprattutto ben poco lungimirante, che, obbedendo ad una logica a dir poco anacronistica, denota nel contempo un'assoluta ignoranza nei confronti di cosa significa fare archeologia nel XXI secolo.
I cantieri di scavo archeologico, soprattutto quelli universitari, costituiscono infatti l'ossatura di un complesso sistema formativo, di cui sono parte integrante anche laboratori e altre forme di pratica sul campo 'oltre lo scavo'. Un sistema che, pur ricco di contraddizioni e lungi dall'essere perfetto, rappresenta un esempio straordinario di formazione teorico/pratica nel settore dei beni culturali, tipico del nostro paese. Un sistema che, per intenderci, assomiglia molto a quello dei restauratori, che non a caso vengono considerati un'eccellenza nostrana. In quei cantieri si crea una simbiosi perfetta fra ricerca e apprendimento, in cui il sapere ed il saper fare collegano dialetticamente vecchie e nuove generazioni, secondo un modello molto efficace di didattica in cui gli studenti sono portati a condividere passo per passo la fatica, fisica e mentale, che sta dietro ogni processo di analisi, interpretazione e ricostruzione di una realtà archeologica stratificata.

Tuttavia, e lo dico facendone parte e rivendicando profondamente il mio ruolo di ricercatore e formatore, il mondo dell'archeologia non risulta credibile fino in fondo in questa pur legittima protesta.
Se infatti la ricerca archeologica costituisce spesso soltanto un costo e se il percorso di formazione  rappresenta troppo spesso una strada lunga e affascinante ma del tutto priva di uscite, le responsabilità di questo blocco ricadono in parte non secondaria anche sul mondo universitario, che è stato quantomeno complice della mancata creazione di un orizzonte professionale per i giovani archeologi. Anche le università hanno infatti le loro colpe, condivise con quelle del ministero e della politica in generale, nel non aver saputo creare, in un lasso di tempo che copre più di due generazioni, alcuna strategia di crescita per i beni culturali.
Nel nostro caso specifico, nonostante le novità metodologiche degli ultimi cinquanta anni, non si è stati in grado di porre nemmeno le fondamenta di una vera e gratificante prospettiva professionale per i giovani archeologi che andasse oltre la speranza (oggi quanto mai vana) di avere un futuro nel mondo della ricerca, o il destino di un lavoro usurante, su cantieri privi di interesse, ostaggio degli umori del direttore lavori, dell'ispettore o del professore di turno.
La mancanza della professione di archeologo è infatti un punto di debolezza che mina la credibilità dell'intero settore: senza uno sbocco credibile non hanno senso né le riflessioni metodologiche né le applicazioni tecnologiche né tantomeno il proseguimento delle ricerche sul campo. Qualcuno avrebbe mai creato i corsi di ingegneria se non ci fosse bisogno di ingegneri? Evitiamo quindi di lamentarci soltanto, se l'archeologia muore già nelle Università e se gli iscritti ai corsi di studio in beni culturali si contraggono allo stesso ritmo degli altri. Cerchiamo piuttosto una via d'uscita da questo ennesimo paradosso di un'Italia che tutti decantano come regina della cultura, ma che alla cultura non dedica, nei fatti, nella politica, nell'attenzione civile, la benché minima cura.
Lo 'scandalo' di questi giorni in definitiva non può stupire nessuno perché è solo l'ennesimo risultato di un divorzio fra testa, cuore e mani del 'sistema beni culturali' che sta minando la credibilità della nostra archeologia e la sta rendendo inutile e insostenibile. Solo coniugando ricerca e sviluppo riusciremo a produrre, accanto a crescita culturale e salvaguardia della memoria storica, anche un futuro per la nostra disciplina e per i nostri giovani e capaci studenti.

11 commenti:

  1. Finalmente! Allora non sono l'unica che da due giorni legge con incredulità e rabbia i commenti e le proteste circa il taglio delle concessioni degli scavi sui suoli privati. Tutte le belle parole sull'archeologia stanno a zero quando nel 2013 nessuno si preoccupa del futuro lavorativo dei giovani archeologi italiani "il cui livello di preparazione è per fortuna molto buono perché hanno avuto la grande opportunità di imparare sul campo". Chi veramente sa che significa imparare a scavare e chi ha un po' di onestà intellettuale, come traspare da tutti gli articoli di questo blog, dovrebbe ammettere che questa forse è proprio una bella notizia. La prima conseguenza è che un’intera generazione non saprà più scavare e non arriverà a 30/35 anni a decidere se abbandonare l'archeologia e trovarsi un lavoro o lavorare gratis o sfruttato e umiliato sull'ennesimo scavo universitario di ricerca. Forse bisogna ammettere che questa ricerca, così come è stata finora, non è più sostenibile né per la società, verso la quale ha dimenticato lo spirito di servizio, né per chi la fa, materialmente!
    Ancora più assurdo mi sembra usare le giovani generazioni e la cultura per battaglie e rivendicazioni che, allo stato dei fatti, nel nostro paese sono al 90% difesa d'interessi precostituiti e vecchi paradigmi che non fanno altro che sbarrare sempre di più ogni sbocco ai giovani, deprimere il settore e renderlo ridicolo all'esterno.
    Sinceramente da giovane, che ha imparato a scavare ma che ha abbandonato la trowel nel momento in cui gli si chiedeva di continuare a lavorare gratis per insegnare ad altri più giovani a scavar...si la fossa, questa non è poi una così grave notizia.
    Se l'archeologia non può essere un lavoro, se non sa mostrarsi e farsi riconoscere come utile alla società, se non racconta quasi mai storie alle persone perché è autoreferenziale e incapace di comunicare, forse è giusto che ripensi a se stessa prima di reclamare fondi.
    Forse la crisi e queste notizie possono essere, per chi non ha nulla da difendere, un'opportunità di rivendicare innanzitutto "not in my name" e di abbattere un pezzo di questo sistema per ricostruirlo su basi nuove.

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  2. Ciao Chiara,
    io posso solo aggiungere che qualche caso "non è più sostenibile né per la società, verso la quale ha dimenticato lo spirito di servizio, né per chi la fa, materialmente!" ma altri casi sono perfettamente sostenibili per la società quando fondazioni, associazioni e privati fanno andare avanti ricerche a costo zero "per il contribuente" (università, comuni, ministero .. uniti da questa asettica definizione). E sicuramente nel caso di Vignale lo spirito di servizio non era e non è una "appendice" per far vedere quanto siamo bravi a fare community archaeology o public archaeology. Certo, è uno scavo universitario. Ce ne sono tanti e mi sembra infantile metterli tutti insieme e buttare via il bambino con l'acqua sporca, posto che da migliorare c'è sempre, da tutte le parti. Ma incapace di comunicare, proprio faccio fatica a credere di esserlo stato in tutti gli anni che ho trascorso lì.

    E usare la mancanza di fondi per giustificare l'abbattimento del sistema marcio e corrotto... con lo stesso criterio possiamo chiudere le scuole pubbliche, che in fondo fanno schifo, formano da decenni generazioni di ignoranti e sono popolate da docenti di scarso valore morale e culturale. Sono sempre più senza fondi ed è giusto così, no?

    Senza contare che tutti gli scavi universitari in terreni pubblici andranno avanti indisturbati senza nessun ripensamento. Fare riflessioni anche di segno contrario va bene, ma gioire in questo modo lo trovo esagerato.

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  3. Perfettamente d'accordo con quanto scritto nell'articolo sopra e con il commento di Chiara. Mi pare francamente inutile continuare a sfornare laureati e dottori di ricerca in archeologia che nessun mercato del lavoro assorbirà mai e che mai potranno continuare a fare ricerca all'interno della stessa Università. Se ripenso agli anni spesi nella mia formazione archeologica, rivelatasi inutile e improduttiva per molti versi all'interno dello stesso contesto universitario che l'ha prodotta, mi viene una gran rabbia e una profonda amarezza.
    Al di là comunque se sia giusto o meno "gioire" del fatto che vengano meno le condizioni per poter scavare sui suoli privati e che quindi in qualche modo si ponga un freno alla ricerca archeologica in Italia (come sosteneva Zanini nell'articolo di ieri sulla Stampa: bloccare lo scavo equivale sempre a bloccare un racconto, un flusso narrativo dal passato al presente), credo che se c'è un risvolto positivo nella vicenda sta nel fatto che la questione sia stata portata all'attenzione pubblica, se ne sia parlato sui quotidiani, si sia fatto rumore attorno ad essa... Chi fa parte del mondo accademico o attorno ad esso vi gravita conosce bene i limiti e i paradossi del sistema universitario italiano e le condizioni penose in cui sono costretti a lavorare gli archeologi nel nostro Paese, ma la gente comune non ne sa nulla! Negli ultimi anni, un po' per spirito di sopravvivenza un po' per reazione costruttiva all'oggettiva impossibilità di continuare a fare ricerca, ho iniziato ad occuparmi di divulgazione, ad andare nelle scuole, spiegare ai bambini cosa fa l'archeologo, perché il suo mestiere debba essere considerato fondamentale tanto quanto quello di un ingegnere o di un medico. Ogni volta non mi stupisce tanto l'ingenua ignoranza dei bambini quanto quella dei loro insegnanti che di ricerca, archeologia, tutela non sanno assolutamente nulla! Come si può allora pretendere, e qui mi ricollego a quello che scrive Chiara, che l'archeologia venga vista come utile alla società, capace di raccontare delle storie e mostrarne l'utilità e l'attualità, se non sa dialogare con la gente, se non sa costruire un ponte tra ricerca e divulgazione, tra l'Università e il territorio? Se vogliamo davvero che questa disciplina abbia un futuro e un senso, credo fortemente che dobbiamo non solo ricreare dalla base il sistema universitario, ma si debbano anche rifondare i paradigmi della comunicazione e riconoscere che i veri utenti finali del nostro lavoro sono i comuni cittadini, quelli di oggi e quelli di domani.

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  4. Non gioisco Steko, il mio tono e la mia radicalità volevano fare solo da contrappeso a tutti gli altri commenti e post che ho visto in giro di sola disperazione e lutto per la notizia. Certo ci sono casi positivi e mi dispiace che tu ti sia sentito toccare nella critiche che evidentemente non riguardano i casi specifici. La crisi e tagli, per come è il sistema al momento, alla fine finiscono per toccare tutti, al di là della meritocrazia e di questo naturalmente non gioisco.
    Direi però che i dati sull'occupazione e sull'abbandono della professione parlano chiaro così come è chiara la situazione di sfruttamento e precarietà della categoria, che inizia e trova quasi un suo fondamento "etico" e connaturato alla professione proprio nelle università. A ciò si potrebbero aggiungere tante altre questioni come il destino delle evidenze archeologiche portate alla luce: quante hanno speranza di essere tutelate e valorizzate e quante in mancanza di questa sicurezza starebbero meglio sepolte?
    Non voglio entrare in merito al discorso e al settore specifico però, nella mia realtà e nella mia situazione (che evidentemente finora è stata meno fortunata di altre) vedo ogni giorno come, nel settore culturale in generale, dietro interessi collettivi e valori assoluti ormai si difendano in molti casi solo interessi di pochi nascondendo anni di una cattiva gestione e sperpero di denaro, a danno di molti. Questo perché per anni, quando i fondi più o meno c'erano si è speso e si è speso male, pensando poco alle esigenze reali della collettività, a misurare i risultati e a spendere con criteri trasparenti, efficaci ed efficienti denaro che sarebbe arrivato comunque.
    Sono la prima a difendere la scuola pubblica come tutti gli altri beni comuni dall'acqua, all'archeologia fino alla cultura in generale ecc. ma perché siano veramente beni comuni, a tutti. Penso che oltre ad alzare la voce e pretendere giustamente che l'Italia investa innanzitutto su cultura e ricerca, queste siano occasioni per dare alla parola "crisi" l'antica accezione positiva, di riconoscimento che un dato sistema è destinato a fallire e che questi siano i momenti in cui le giovani generazioni e i giovani professionisti debbano accollarsi il diritto e il dovere di criticare e di porre la basi per ricostruire.
    E non affidando le proprie battaglie ad altri, o buttando il bambino con l'acqua sporca ma partendo dall'autocritica e dal ripensamento del proprio lavoro, dal provare nuove vie, dal lottare per prendersi gli spazi per fare ognuno nel suo piccolo e nel settore di propria competenza. Vedo tanti ragazzi che stanno cercando di fare questo, di costruirsi delle possibilità che la capacità di scavare finora non gli ha offerto, d'innescare dei ripensamenti dal basso. Io sono una tra questi e, avendo ricevuto un finanziamento pubblico per un progetto culturale, ne sento il grosso peso e la responsabilità, nonché il timore di non riuscire a creare attraverso di esso un valore aggiunto non solo per me, ma per il territorio e chi lo abita. Mi sento come un giovane chirurgo alla sua prima operazione o un ingegnere alle prese con la statica di un edificio.
    Rispetto la tua opinione e penso che ci sia tanto di bello da salvare nell'archeologia e nelle persone che la trasmettono e la fanno ma sono convinta che il futuro delle prossime generazioni di archeologi in questo momento non passi attraverso la possibilità o meno di scavare su uno scavo di ricerca.

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  5. È che.. non lo so.. ora mi metto a parlare come mia nonna... però prima si eliminano le ricerche su terreni di privati, poi la prossima mossa da spending review di un paese sempre più in crisi sarà tagliare sugli scavi su terreni pubblici, oppure sarà di intervenire sull'archeologia preventiva o sui tempi per la concessione del nulla osta ai lavori pubblici o privati, complici loro malgrado ispettori di soprintendenza sempre più anziani e sempre di meno e sempre più oberati di lavoro.
    Magari esagero e sto facendo chiacchiere da bar, ma è uno scenario che si potrebbe prefigurare, e allora non sarebbe colpita solo (o in massima parte) l'università, ma tutti coloro che quotidianamente lavorano (o vorrebbero lavorare) su cantieri archeologici.
    Qui non si tratta del degrado di un singolo scavo o area archeologica, si tratta di un provvedimento generalizzato e cieco, anzi sordo, e mi sembra si stia innescando una spirale pericolosa che è passata dall'indifferenza alla ricerca ad azioni concrete "contro" la ricerca. Considerata inutile, una perdita di tempo ed evidentemente di denaro, in questo Stato che ancora non vuole capire dove deve tagliare gli sprechi inutili.
    Mi sembra un paradosso: il mibac, che dovrebbe promuovere la ricerca e tutelare quello che con la ricerca emerge, praticamente decide di tagliarsi un braccio: un po' come se il ministero delle finanze smettesse di inviare ispettori a fare da revisori dei conti nelle scuole per risparmiare sui costi della missione: non risolvi il problema, ma ne crei un altro, lo scollamento ancora più marcato tra due realtà pubbliche che perseguono uno scopo di utilità sociale.

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  6. Lo stop alle concessioni di scavo su terreni privati mi sembra una pessima cosa non tanto in quanto tale, ma come sintomo evidente che la comunità che fino ad oggi ha gestito l'archeologia non è stata capace di riflettere sul significato di questa disciplina, di capirne gli sviluppi, di adeguarsi alle esigenze di una nuova didattica e di un nuovo mercato del lavoro. Una disciplina ripiegata su se stessa, invecchiata e priva di idee nuove. Sto generalizzando, perché gli esempi positivi non mancano, ma sono appunto esempi, punte di eccellenza. Sono convinto che, in questa fase, le idee migliori vengano dal variegato, e discontinuo, mondo professionale, e che solo questo sia capace di quelle riflessioni innovative necessarie all'archeologia, anche a costo di duri scontri.

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  7. Mi dispiace che da tutto ciò derivi, poi, un clima di totale sfiducia. Certo, l'università ha le sue colpe, e il mancato riconoscimento della professione non ci rende degli interlocutori credibili sul mercato del lavoro e con le istituzioni. Ma spostare il problema dal fatto che non c'è lavoro nel campo dell'archeologia all'università che illude che lo scavo archeologico sia un mondo bucolico dove ci si fa le foto ricordo seduti sui mucchi di terra non mi sembra giusto. La figura professionale dell'archeologo ideale non esiste! A maggior ragione che non esiste una professione regolare, ognuno declina il suo essere archeologo a seconda delle sue inclinazioni o dei casi della vita: io per esempio mi dichiaro archeologa perché tale è la mia formazione, ma lavorativamente parlando faccio la custode, Giuliano insegna archeologia digitale - informatica applicata ai BBCC - in università, gli stessi ispettori di soprintendenza (che sono coloro che effettivamente vengono chiamati funzionari archeologi) spesso si riducono ad essere per causa di forza maggiore più simili a burocrati che a ricercatori, e di sicuro non sono archeologi sul campo.
    Se poi vogliamo dire che il futuro del lavoro da archeologo non è nella ricerca sul campo allora possiamo essere d'accordo e il progetto di Chiara dimostra che le occasioni vanno cercate altrove, laddove c'è domanda, in base alle richieste del mercato. Ma a mio parere per chi, studente, vuole perseguire la strada dell'archeologia, la ricerca sul campo è fondamentale nella formazione, imparare a farsi domande, a ragionare, anche ad affrontare la fatica fisica se necessario.
    Infine, e chiudo questo mio delirio senza capo né coda, torna il leit motiv della comunicazione (mancata) del racconto storico che dev'essere il fine ultimo in quanto definitivo della ricerca e che invece ancora oggi viene spesso e volentieri lasciato in disparte o svolto a talmente tanti anni di distanza da aver perso qualsiasi contatto con la comunità che aveva "subìto" lo scavo. Per questo sì che bisogna fare mea culpa, per questo sì che non dobbiamo lamentarci se ci viene ritirata la concessione (non parlo di Vignale, ma di molti altri casi esistenti). Non ho la soluzione in tasca, naturalmente, né ho la forza da sola per cambiare lo stato delle cose. Ma soltanto col pessimismo e con le imputazioni d'accusa non si va da nessuna parte.

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  8. Io credo che in tutto questo ragionare si sia perso di vista un parametro che al giorno d'oggi ci sta fracassando la testa come fosse un boomerang che abbiamo lanciato senza saperlo raccogliere al suo ritorno: per decenni abbiamo pensato che l'archeologo dovesse essere un mero archeologo, appunto. Mai che gli siano state insegnate capacità manageriali, aspetti comunicativi, mai che nei concorsi pubblici (per la verità ridicoli) si vada oltre la datazione di quell'opera o quel contesto e si chieda invece come investire un milione di euro per la valorizzazione di quel sito, mai che si chieda cosa ci faresti con Facebook e Twitter nel tuo museo, come intendi utilizzare Pinterest, quale progetto di diagnostica pensi di mettere in campo, come ti poni di fronte a due emergenze di cui però ne puoi risolvere nell'immediato soltanto una. Ci siamo per anni raccontati balle che l'Archeologia è una disciplina multidisciplinare, ma non nel senso che l'archeologo deve sapere più cose, ma nel senso che per studiare un reperto bisogna chiamare 20 persone. Ci siamo fatti abbindolare da termini tecnici e concetti filosofici sulla carta interessanti, ma nei fatti deleteri e distruttivi: ma che m'emporta a me di assumere 50 persone se le competenze di 40 di loro le posso imparare io? Non è meglio investire quei fondi in ricerca invece che in stipendio al personale? Non è meglio assumere 10 archeologi invece che 1 archeologo e 10 scienziati e ingegneri? Così avviene che nel turbinio attuale di progetti di valorizzazione (che parolona!) spesso coniugati in termini meramente economici gli unici che ci guadagnano sono gli altri, ovvero i non archeologi: gli altri, quelli che ti fanno app per mobile (per lo più penose) che poi il museo può distribuire gratis vantandosi di avere l'app, la digitalizzazione del reperto che fa Google perché loro hanno soldi e brand, oppure la ricostruzione fatta fare ad architetti e ingegneri perché loro il computer lo sanno usare, mica come gli archeologi, che per lo più ancora devono comprendere come si fa un 3D e a cosa serve un 3D, figurati se possono sedersi accanto all'ingegnere, al quale l'unica cosa che sanno dire è che nel libro "c'è scritto così". E se lo fanno, non sanno manco che è la London Chart, quindi non si capisce cosa si siedono a fare, se non per beccare il gettone di salario.
    Usciamo dalle Università e l'unica prospettiva è il posto pubblico. Oppure qualche cooperativa, sennò sperare che qualche competenza acquisita sia spendibile nel mercato generalista del lavoro, se non altro per servire i tavoli o battere i prezzi alla cassa.
    Questo cosa implica? Che mentre ci lamentiamo del fatto che lo Stato non ha più soldi per respirare (e quei pochi che ha li succhia dalle tasche sempre più vuote dei cittadini), decine di miliardi dei fondi UE tornano indietro perché non si sa come spenderli. Al tempo stesso, guai se qualche privato vuole sponsorizzare qualche restauro, minimo si becca una denuncia, oppure deve rimanere anonimo e fare il mecenate che mette il suo denaro in mano agli incompetenti senza neanche dover chiedere conto di come quei soldi verranno spesi. Perché l'archeologia deve essere pubblica e libera: ah se si chiedesse trasparenza e resoconti pubblici ai gruppi di ricerca archeologici che operano con fondi statali, quante grasse risate molti di noi si potrebbero fare...
    Si bloccano gli scavi in terreni privati? Quasi alleluja mi viene da dire, i nostri figli e nipoti, per una volta tanto, ci ringrazieranno.

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  9. Negli ultimi due giorni questo blog è stato il punto di incontro per tante visioni sull'archeologia e il suo futuro. In 24 ore questo post in particolare è diventato il secondo post di P&F più letto da ottobre, scavalcando rapidamente grandi "classici" dei mesi scorsi, sui quali pure si era acceso un bel dibattito, e decuplicando il numero di contatti giornaliero. Mi fa piacere che gli stimoli (e perché no, le provocazioni) su cui ho lavorato in questi mesi abbiano sortito questo effetto.
    E' il segno inequivocabile che il tema del rinnovamento in archeologia è molto sentito, soprattutto nelle giovani generazioni, ed è più vasto delle 'soluzioni' normalmente imposte dall'alto, vedi ad esempio il finto tema dell'innovazione tecnologica o la visione, fondamentale ma limitata, dell'evoluzione metodologica. Ed è il segno che su questo tema esiste invece un interesse diffuso e appassionato, che rimane però poco visibile e aspetta solo dei luoghi in cui possa venire liberamente allo scoperto. Luoghi che purtroppo non esistono nelle istituzioni e non coincidono quasi mai con quelli della formazione e della specializzazione.
    Tutti i commenti che ho letto sono per me preziosi, come lo sono le idee e i sentimenti che esprimono. Rabbia, delusione, ma anche passione, lucidità e voglia di riscatto: sono tutti frammenti di una visione complessa, nuova e affascinante, che deve continuare a crescere e affermarsi nelle coscienze, deve trovare spazio nella formazione e nella ricerca.
    Ma soprattutto, per me è assolutamente evidente, deve trovare finalmente il giusto riconoscimento nelle "stanze dei bottoni", nei luoghi della politica e del potere, in cui invece spadroneggia un'ignoranza crassa e imbarazzante.

    Grazie a tutti per aver scelto questo luogo per lasciare un contributo ad una visione condivisa e aperta dell'archeologia del domani.
    La grande partecipazione di chi ha letto, ha diffuso il link e commentato, è per me una bella spinta a continuare. Quindi, aspettatevi nuovi post a breve ...

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  10. Arrivo in colpevole ritardo nella discussione anche perché - come ha scritto Giuliano - in 2 giorni su questo blog c'è stata una vera e propria brainstorming, una concentrazione di considerazioni, riflessioni e spunti sul tema come poche volte è capitato.
    La questione è spinosa e complessa e le sfaccettature e gli approcci da cui potrebbe essere affrontata sarebbero infiniti.
    Ma il mio modesto commento è arrivato in ritardo anche perché ho letto e riletto di volta in volta le opinioni dei partecipanti riflettendo molto.
    L'impressione che ho avuto è che tutti hanno ragione. Ha ragione Chiara, ha ragione Stefano, ha ragione Giovanna, ha ragione Marina, ha ragione Gabriele, ha ragione Simone e ha ragione Giuliano.
    Questo per me vuol dire che andrebbero fatte tutte le cose che si sono dette.
    Non è giusto che i pochi corsi universitari di archeologia rimasti in Italia non possano avere a disposizioni degli scavi dove formare la nuova generazione di archeologi, così come è giusto chiudere i cantieri e gli scavi "insostenibili" economicamente e socialmente.
    Non è giusto impedire o bloccare la formazione di nuovi archeologi perché tanto non troverebbero un mercato del lavoro a loro favorevole e diventerebbero dei frustrati costretti a ripiegare su impieghi dequalificanti, così come è giusto e doveroso cambiare l'archeologia come l'abbiamo conosciuta finora per renderla ancora socialmente ed economicamente 'utile'.
    Penso che questo sia il momento opportuno e migliore per immaginare un'occasione di ri-fondazione della disciplina come avvenne nel convegno di Siena degli anni '80 in cui nacque l'archeologia moderna. Ecco, penso che ora sia arrivato il momento di far nascere l'archeologia post-moderna. L'archeologia che vogliamo e che immaginiamo; la disciplina che non forma solo e soltanto dei potenziali ricercatori inadatti al 'reale' mondo del lavoro nel settore culturale ma delle professionalità che quel mondo lo dominano e lo conquistano; l'archeologia veramente interdisciplinare aperta alle nuove tendenze culturali e tecnologiche non in maniera sterile ma proficua e produttiva.
    Tutto il discorso può sembrare utopico e irrealizzabile, come tutte le 'rivoluzioni' culturali nella storia dell'uomo...finché qualcuno non le realizza.

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  11. [aggiornamento] Divorzio all'italiana è il post più letto di P&F.

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