martedì 2 luglio 2013

Corpi al sole

In questi giorni torna alla ribalta la discussione sulla miserrima condizione del nostro patrimonio archeologico, ancora una volta innescata dal sito-simbolo di Pompei e dalla vicenda incredibile dell'incapacità di valorizzarlo. Torna, con il sapore delle notizie estive, di quella cronaca stanca di inizio della bella stagione, in attesa delle polemiche sul prossimo crollo da leggere e commentare sotto l'ombrellone ...

La diffusione del rapporto UNESCO sullo stato del sito ci deve ricordare come il World Heritage - e la famosa lista dei siti patrimonio dell'umanità - prevedono non solo meccanismi di valutazione delle candidature alla lista, ma anche strumenti di controllo, concepiti per monitorare la capacità di investire, progettare e gestire. Forse non tutti sanno ad esempio che l'inserimento in lista non certifica un merito, ma piuttosto una responsabilità, e come tale è revocabile, col conseguente inserimento nella lista dei siti a rischio, concepita proprio allo scopo di "incoraggiare azioni correttive" per salvaguardare i siti patrimonio dell'umanità.
Sarebbe quindi il caso di avere una visione più ampia, che vada oltre il conteggio delle bandierine su una mappa (che sa tanto di indicazione di giacimenti petroliferi, dai ...) e del calcolo delle ricadute di incentivo all'immagine e al turismo che il nostro patrimonio sembra promettere. Magari organizzando una seria politica di sviluppo e crescita: come ogni anno avviene con la lista delle bandiere blu, ad esempio: un programma che per molti è sinonimo di vacanze da sogno, ma che invece nasconde un preciso indirizzo rivolto alla sostenibilità ambientale. Già, proprio la nostra cara sostenibilità.

Nel frattempo non ci dimentichiamo infatti che esistono nel nostro paese centinaia di antiche città 'nude' (solo pochi giorni fa abbiamo raccontato una di queste storie, che qualcuno ha giustamente definito inconcepibile ...), le cui vicende non sono certo meno paradossali di quelle di Pompei. 

Sono un po' tutti i siti archeologici della nostra penisola a rimanere esposti, inermi e senza alcuna protezione, non solo al sole e alla furia degli elementi, ma ad ogni genere di violenza. Vittime innocenti di soprusi e incapacità di cui nessuno si sente responsabile e di cui pochi sono veramente consapevoli:
- di procedure di appalto che confondono imprese edili con professionisti del restauro, operai con archeologi, tecnici con esperti di comunicazione, e che, senza distinguere un sito archeologico da un deposito per gli autobus, prevedono sempre e soltanto il meccanismo del massimo ribasso;
- di conseguenza, vittime di progetti concepiti senza pensare a manutenzione, promozione e gestione. In cui tutto, fino all'ultimo spicciolo, finisce disperso in mille rivoli fra consulenze, varianti, variazioni, subappalti, opere accessorie, oneri secondari e funamboliche procedure;
- vittime di un sistema di fruizione basato quasi sempre sul low-cost (avete presente i prezzi dei biglietti delle nostre aree archeologiche?), se non sulla pretesa di gratuità e sul conseguente, inevitabile, ricorso ai volontari;
- di chi scava solo per la ricerca, e di chi concepisce la tutela come una operazione di polizia. E dell'eterno braccio di ferro che deriva da questo sistema distorto, in cui la complementarietà fra poteri diventa un'assurda contrapposizione fra fazioni opposte che ha come unico risultato il travisamento del significato del proprio operare nei confronti della società, del pubblico, del paese intero.

Non servono megaprogrammi o gigaprogetti per il nostro patrimonio. Serve far funzionare il paese.



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