giovedì 18 luglio 2013

Poveri ma belli

Scavare è un’operazione distruttiva, irreversibile e irreparabile. Pratica di indagine diffusa, caratterizzata da una metodologia codificata, e da tecniche di intervento standardizzate. L’atto dello scavare produce informazioni, accumula dati, ma al tempo stesso rimane un’operazione estremamente invasiva. E' nella documentazione che rimane, come se fosse un archetipo, la rappresentazione ultima di quanto è stato asportato e distrutto.
Il valore aggiunto di questa azione distruttiva -e suo risultato tangibile- non è quindi il ritrovamento e la scoperta, ma piuttosto un incremento di conoscenza, cui si giunge attraverso un processo di astrazione crescente, dall’analiticità dei dati raccolti sul campo a crescenti livelli di strutturazione logica.

Per un archeologo lo scavo finisce qui. Indagato un sito, la ragione d’essere, ai suoi occhi, si consuma. Il sito rimane parzialmente svuotato, a tratti profondamente trasformato e duramente provato dallo scavo. Incomprensibile, perché conserva solo alcune parti della sua storia, lasciate intatte per una serie di motivi che vanno dalla ‘importanza’ delle strutture alle universali leggi della statica.

Questa è la lezione di mezzo secolo di cultura materiale, e della conseguente filologia stratigrafica che ha trasformato definitivamente gli archeologi da antiquari in investigatori. Una lezione che viene ripetuta nelle aule universitarie e che fortunatamente viene trasmessa alle nuove generazioni. Una lezione che difficilmente si concilia però con gli appelli alla valorizzazione del nostro patrimonio fondati perlopiù su presunte necessità di preservarne una fantomatica 'bellezza'.

E' evidente che qualcosa non va. La versione irenica ed edulcorata del patrimonio inteso come il Bello, il Sublime, l'Antico - che neanche tanti anni di storicismo e di cultura materiale sono riusciti a svellere pienamente - è una barriera che divide chi (cerca di) lavorare e il pubblico, bombardato di messaggi che ostentano miti del passato o propongono romantici viaggi in dimensioni ormai perdute. In particolare, in campo archeologico, questi messaggi rimangono fortemente ideologici, oltre che assolutamente banali, e conducono verso una idea di sfruttamento che, abbandonati gli eccessi minerario-petroliferi, rimane comunque limitata a proporre pacchetti gastronomico-cultural-tradizionali per comitive di turisti (distratti).
Che ruolo potranno avere i nostri archeologi professionisti in una economia della cultura sempre più declinata in chiave turistica? Come possiamo conciliare le esigenze della ricerca e della conoscenza con un mercato che consuma solo monumenti, siti e capolavori artistici? Che spazio siamo in grado di offrire alle nuove generazioni per spendere le loro competenze? Credo che questi temi dovrebbero essere centrali nel dibattito sul ruolo della cultura nel nostro paese, se solo esistesse un dibattito su questo argomento ...
Come d'altronde sarebbe necessario distinguere all'interno di un contenitore tanto vago quanto insignificante come quello della "cultura" le tante componenti che lo animano. L'archeologia è una di esse, con le sue prerogative e le sue specificità, che non possono essere trascurate. Rispettarle e valorizzarle significa proporre un modello di sviluppo fondato sulle radici scientifiche della disciplina, ma che sia anche in grado di impiegare le competenze dei giovani che queste radici le studiano e le mantengono vive. Cinque anni di studio (più specializzazione e altra formazione post lauream) sono infatti un po' tantini per formare guide turistiche che scortino i crocieristi sui siti archeologici e li accompagnino poi in qualche agriturismo nelle vicinanze ...

Belli e brutti, poveri o ricchi, tutti i segni del passato sono la nostra vera cultura, e dobbiamo lavorare in tutti i modi per dare la possibilità a quanti sono in grado di valorizzarli, raccontarli, esporli, proteggerli e tutelarli di farlo come esito della loro formazione e della loro competenza.

2 commenti:

  1. I quesiti sono giustissimi ma sono le risposte che mancano; per questo la nostra economia della cultura va a rotoli. Il problema è come valorizzare il patrimonio senza proporre pacchetti archeologici ed enogastronomici ai turisti (distratti).

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  2. Per questo motivo tento di proporre, in questo spazio come nella mia attività di ricerca e di formazione, una prospettiva nuova, appunto sostenibile; in cui ci sia collaborazione e sinergia fra le tante anime del mondo dei beni culturali, uno scopo condiviso, un obiettivo cui puntare.
    Continua a prevalere, invece, lo scontro, la contrapposizione, il veto incrociato. E questo avviene ad ogni livello, nei rapporti personali fra colleghi, ricercatori, ispettori, professionisti, ma anche a livello ministeriale, dove si contrappongono non visioni, proposte ed idee, ma posizioni precostituite e certezze ideologiche.

    Io continuo a chiedermi, tutti i giorni nel mio lavoro, chi trarrà beneficio di una economia dei beni culturali (se mai sarà possibile farla partire in questo paese). Tutti pensano a questo settore com una valvola di sfogo per la situazione critica del nostro paese, ma temo che difficilmente questo corrisponderà ad una valorizzazione anche del lavoro e delle professionalità.
    E per questo cerco di formare, negli allievi, non solo la conoscenza di settore, ma anche la consapevolezza della loro importanza, perché siano in grado di apprezzarla, e di rivendicarla se necessario (come d'altronde sta avvenendo in questi mesi).
    Non ho ricette miracolose, penso piuttosto che ognuno possa e debba contribuire, riflettendo profondamente su quale sia la missione insita nel proprio ruolo. E già innescare una discussione è un importante risultato, in un mondo che è assolutamente paralizzato in una lunga guerra di trincea che nessuno è in grado di far terminare.

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